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ROSE SULLA LAPIDE DI PIERSANTI MATTARELLA UCCISO DALLA MAFIA

E mentre viene eletto Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sulla lapide del fratello Piersanti qualcuno depone un bouquet di rose bianche e rosa.



Piersanti Mattarella, venne ucciso dalla mafia  il 6 gennaio 1980 mentre ricopriva la carica di Presidente dell'ARS. Quel giorno era appena entrato in auto insieme con la moglie, coi due figli e con la suocera per andare a messa, un killer si avvicinò al suo finestrino e lo uccise a colpi di pistola. 

Inizialmente fu considerato un attentato terroristico, poiché subito dopo il delitto arrivarono rivendicazioni da parte di un sedicente gruppo neo-fascista. Pur nel disorientamento del momento, il delitto apparve anomalo per le sue modalità, portando il giorno stesso lo scrittore Leonardo Sciascia ad alludere a "confortevoli ipotesi" che avrebbero potuto ricondurre l'omicidio, in modo comodamente riduttivo, alla mafia siciliana.

Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria sui "delitti politici" siciliani (le uccisioni di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, dello stesso Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo) che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l'ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone. Questi, che la sottoscrisse nella qualità di procuratore aggiunto, puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estrema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e mafia siciliana. Nell'ipotesi accusatoria di Falcone e della Procura della Repubblica il Fioravanti, di cui risultava accertata la presenza a Palermo nei giorni del delitto, avrebbe goduto dell'appoggio di esponenti dell'estrema destra palermitana quali Francesco Mangiameli, dirigente siciliano di Terza posizione poi ucciso dallo stesso Fioravanti il 9 settembre del 1980, e Gabriele De Francisci, militante del FUAN, che avrebbe messo a disposizione un appartamento nei pressi dell'abitazione della vittima.

Solo dopo la morte di Falcone nella strage di Capaci, l'uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, che fino ad allora non aveva fornito indicazioni in proposito. Buscetta, in particolare, dichiarò che «[Stefano] Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all'uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a [Salvatore] Riina (o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare) che non si doveva ammazzarlo [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla "Commissione"».

Ad ordinare la sua uccisione fu Cosa Nostra perché Mattarella voleva portare avanti un'opera di modernizzazione dell'amministrazione regionale e per questo aveva iniziato a contrastare l'ex sindaco Vito Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; Ciancimino infatti era il referente politico del clan dei Corleonesi. Per queste ragioni, alla fine del 1979 Mattarella aveva deciso di chiedere al segretario nazionale del partito, Benigno Zaccagnini, il commissariamento del Comitato Provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, perché aveva visto «ritornare con forte influenza Ciancimino», il quale aveva siglato un patto di collaborazione con la corrente andreottiana, in particolare con l'onorevole Salvo Lima.

Nel 1995 vennero condannati all'ergastolo i mandanti dell'omicidio Mattarella: i boss mafiosi di Cosa Nostra, Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci. Durante il processo, la moglie di Mattarella, testimone oculare, dichiarò inoltre di riconoscere l'esecutore materiale dell'omicidio nella persona di Giuseppe Valerio Fioravanti, che tuttavia sarà assolto per questo crimine poiché la testimonianza della signora Mattarella e le altre testimonianze contro di lui (quella del fratello Cristiano Fioravanti e del criminale comune pluriomicida Angelo Izzo) non furono ritenute abbastanza attendibili. Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati né risultano, a più di tre decenni dal delitto, piste investigative che facciano sperare nella possibilità di acclarare compiutamente l'accaduto.

Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, Giulio Andreotti era consapevole dell'insofferenza di Cosa Nostra per la condotta di Mattarella, ma non avvertì né l'interessato né la magistratura, pur avendo partecipato ad almeno due incontri con capi mafiosi aventi ad oggetto proprio le azioni politiche di Piersanti Mattarella.

Dichiarò Mannoia: «Attraverso Lima del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche Giulio Andreotti, che scese a Palermo e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, Lima, Nicoletti, Fiore Gaetano e altri. Ho appreso di questo incontro dallo stesso Bontate Stefano, il quale me ne parlò poco tempo dopo, in periodo tra la primavera e l'estate 1979... Egli mi disse solo che tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere". Alcuni mesi dopo fu deciso l'omicidio Mattarella. »

Questo fatto viene riportato nella sentenza di assoluzione del giudizio di Appello del lungo processo allo stesso Giulio Andreotti. La stessa sentenza afferma che il contrasto di Andreotti al sodalizio mafioso divenne implacabile proprio dopo l'efferato delitto Mattarella.

Nella sentenza della Corte di Assise del 12 aprile 1995 n. 9/95, che ha giudicato gli imputati per l'assassinio di Piersanti Mattarella, è scritto che ”l'istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l'azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti interessi” e si aggiunge che da anni aveva “caratterizzato in modo non equivoco la sua azione per una Sicilia con le carte in regola”. (Wikipedia)


Piersanti Mattarella era figlio di Bernardo, uomo politico della Democrazia Cristiana, e fratello di Sergio, crebbe con istruzione religiosa, studiando a Roma al San Leone Magno, dei Fratelli maristi. Dopo l'attività nell'Azione Cattolica (ricoprendo nell'associazione anche incarichi nazionali, si dedicò alla politica nella Democrazia Cristiana. Fra i suoi ispiratori ci fu Giorgio La Pira, avvicinandosi alla corrente politica di Aldo Moro. Divenne assistente ordinario di diritto privato all'Università di Palermo. Negli anni '60 divenne consigliere comunale di Palermo, eletto nella lista DC.

Fu eletto nel 1967 deputato all'Assemblea regionale siciliana, nel collegio di Palermo, rieletto per due legislature (1971 e 1976). Dal 1971 al 1978 fu assessore regionale alla Presidenza in diversi governi. Fu eletto dall'Ars presidente della Regione Siciliana nel 1978, alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l'appoggio esterno del partito comunista italiano. Nel 1979 dopo una breve crisi politica, formò un secondo governo. Nel 1980, dopo la sua uccisione, il vice presidente, il socialista Gaetano Giuliano, guidò la Giunta regionale fino al termine della legislatura cinque mesi dopo.

La lotta alla mafia di Piersanti Mattarella rappresentò una sua chiara scelta di campo nella Conferenza regionale dell'agricoltura, tenuta a Villa Igea la prima settimana di febbraio del 1979. Il deputato Pio La Torre, presente in quanto responsabile nazionale dell'ufficio agrario del Partito Comunista Italiano (sarebbe divenuto dopo qualche mese segretario regionale dello stesso partito) attaccò, con furore, l'Assessorato dell'agricoltura, denunciandolo come centro della corruzione regionale, e additando lo stesso assessore come colluso alla delinquenza regionale. Mentre tutti attendevano che il presidente della Regione difendesse vigorosamente il proprio assessore, Giuseppe Aleppo, sgomentando la sala, Mattarella riconobbe pienamente la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali. Un solo periodico sfidando il clima imposto pubblicò il resoconto, sottolineando come fosse generale lo sconcerto e come fosse comune la percezione che si apriva, quel giorno a Palermo, un confronto che non avrebbe non potuto conoscere eventi drammatici. Un senatore comunista e il presidente democristiano della regione si erano, di fatto, esposti alle pesanti reazioni della mafia. Il mese successivo comunque Mattarella confermò Aleppo alla guida dell'assessorato.

Il Procuratore Giancarlo Caselli, in un'intervista a Repubblica del 12 agosto 1997, affermò: “Piersanti Mattarella un democristiano onesto e coraggioso ucciso proprio perché onesto e coraggioso”. Il Procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, nel libro “Per non morire di mafia”, ha scritto che Piersanti Mattarella “stava provando a realizzare un nuovo progetto politico-amministrativo, un'autentica rivoluzione. La sua politica di radicale moralizzazione della vita pubblica, secondo lo slogan che la Sicilia doveva mostrarsi 'con le carte in regola', aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti clamorosi, mai attuati nell'isola”.



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