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SICILIA: DAL TERRITORIO COME MEMORIA SEDIMENTATA AD UN OBLIO SENZA ELABORAZIONI DEL LUTTO

Città, luoghi, territori. Riflessioni sull'etica del sapere geografico di Giuseppe Campione.



“Abitare le distanze” diventa l’ossimoro che meglio descrive la non resistibile contraddizione tra il rinnovato bisogno di radicamento nello spazio e la crescente appartenenza al fuori, tra localismo e deterritorializzazione, tra l’esperienza dello stare e quella del transitare, materialmente ed immaterialmente. Così andremo avanti, forse a fatica, senza immaginare però di poter imbozzolare, iconografare lo spazio-movimento e senza soprattutto pensare di dover ridurre la complessità. Forse sarebbe possibile un percorso: quello di suggerire i significati, i valori, gli ordini latenti e/o inespressi, con forme di comunicazione persuasiva e scoprire significati nascosti in significanti noti. E, anche se sembrano superate la mitologia dell’antiurbanesimo e la visione apocalittica del destino della città, non bisogna cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi. Il fatto è che “la città non ci garantisce più quello che ci ha promesso”: dalla libertà alla cittadinanza, all’attenuazione della diseguale distribuzione della ricchezza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Ma vivere la città come un incubo non ci porterebbe lontano.

Le geografie, quelle del senso comune, comunque si sono aperte sempre di più all’ascolto dei luoghi e alla ricerca di significanti non banali, all’ascolto del grano che cresce, come avrebbe potuto dire Levi Strauss (2003). Proprio perché la complessità dell’urbano si è rivelata irriducibile, né più né meno della complessità della società. Di periferie, del loro modo di produzione, della paura che nasce dall’abbandono, di una insicurezza in un certo senso voluta (un nodo scorsoio, come dura replica alle storie del modo di produzione urbano), dobbiamo parlare molto, per esorcizzare la disgregazione sociale e ristabilire i canoni della cittadinanza (La Torre, 2000). Ma lo squadernarsi della città recupererà marginalità e insufficiente qualità di vita? Soprattutto attenuerà l’insorgere, su porzioni di territorio a perdere, dei pericolosi effetti di una sorta di cittadinanza parallela, alternativa, generatrice di disvalori che aggregano e danno senso, senso comunque, anche welfare parallelo? E’ come riandare all’istituzione alternativa e/o parallela di Santi Romano (1947, poi 1983) o al sovrapporsi di storie come in Zagrebelsky (2007). E saranno narrazioni quotidiane, nuovi discorsi, la modalità per reiterare e istituzionalizzare l’esistente, collaborando alla costruzione di significato, all’attribuzione di senso, utili all’inverarsi di nuova regola sociale. 

Le città e le stanze del territorio, nella metafora di L.B. Alberti, scene locali dai contorni incerti e sovrapposti, che “nel loro montaggio complessivo, si catalizzeranno nei luoghi di maggiore dinamismo”, saranno connessione, relazione, in una maglia di gravitazioni e di gerarchie, sistema (Campione 2005). E la ‘narrazione’ della città, l’edificazione dei suoi ‘miti’, divengono le reali strategie di marketing urbano e, al tempo stesso, in modo più o meno consapevole, influiscono sui modi e sulle operazioni di trasformazione e cosmesi: la città prospera alimentando la propria leggenda, obliando cadute e distorsioni e delegando a logiche progettuali, talora improbabili, le strategie per un divenire compatibile. Il ‘percorrere’ la città, il ‘camminarla’, il leggerla diverranno allora, in questo contesto, strumenti di vera e propria ‘scrittura’. Così la mappa mentale delle città può dirsi addirittura creata dall'insieme dei discorsi e delle rappresentazioni che si sono succedute. Riflette ad esempio Calvino (1995): prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni d’altre persone d’ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i libri, una città di cui ci si appropria leggendo. Augè (2005) ci riporta invece a quella che Lyotard (1974) chiamava la fine delle grandi narrative, un momento che corrisponde alla perdita delle illusioni: dai miti d’origine che sono spariti da tempo ai miti escatologici del futuro.

Ora ripensare all’utopia di città per vivere, con modalità urbanistiche che dovrebbero superare antiche logomachie sulle priorità degli assunti, significa non navigare verso un’isola che non c’è, ma immaginare un’antigeografia dell’esistente. Tornare cioè alla città come principio ideale e come motore di una nuova armonica, in quanto possibile, regionalità. Regione come spazio costruito da una storia ripensata che si è inconsapevolmente sedimentata in antropologie e logiche territoriali che ne hanno disatteso le grammatiche. La geografia, e poi l’urbanistica, avrebbero dovuto dare forma a un piano di generali riconsiderazioni capaci di tener conto “contemporaneamente” di tutti i fattori sociali, culturali, economici: “questi sono i soli che potranno modificare le condizioni di vita”, diceva Adriano Olivetti (1958), prima che Campos Venuti (1987) parlasse di terza generazione e quel “poetare” apparisse alla fine confinato alle regioni del cuore.

Questa visione, che sembrava anch’essa auto-confinarsi nei recinti dell’utopia, resta riferimento per chi ha memoria di storie e progetti locali, di azioni di pianificazione continue nel tempo, che avrebbero dovuto rappresentare una risorsa determinante per sperimentare più efficaci modelli di governo metropolitano? Azioni di pianificazione urbana, cioè, dialogata e monitorizzata da forze sociali e culturali, con azioni condivise, con forme interistituzionali di collaborazione, in una comune rilettura delle opzioni di crescita, ripensandone le dinamiche, per una diversa relazione tra strategie e progetti. Ecco allora l’urgenza di dare senso compiuto al progetto di ricostruzione della città, per pensare nuovamente, e questa volta più compiutamente, ad un urbano possibile: mobilitando in questo muoversi risorse, volontà, intelligenze, professionalità, luoghi di società esigente. Non siamo riusciti fin qui a garantire, proprio per la carenza di discorso metropolitano, quelle epifanie che avevamo promesso: nuove germinazioni, dalla cultura della libertà a quella della cittadinanza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Per questo la “promessa urbana”, resta una sfida e tutti gli attori sono/siamo chiamati ad affrontare il disordine che è l’altra faccia del nozionismo dello sviluppo e della crescita impropria. 

In altre parole dovremmo nuovamente rintracciare una più generale sperimentazione di congrue opzioni culturali, anche per conseguenti azioni di governo: in modo da determinare possibili mappe di capitale sociale, ricco di invenzioni e pensieri forti e finalizzato, negli effetti di un operare complessivamente dialogato, ai temi dell’auspicata nuova qualità della convivenza. E sarebbe come esigere, più che “governement”, significativi approcci a forme di “governance” e di qualità della cittadinanza. E allora ritrovare il senso dei luoghi, arricchendo la nostra “cassetta degli attrezzi” con quello che offrono saperi all’apparenza distanti. Il risultato sarà un mosaico, ricco di rimandi che si aprono su scenari spesso sorprendenti: dove il locale e il globale si incontrano, si sommano, suggeriscono chiavi di lettura, per leggere il nostro territorio e la sua “insularità complessa”, le “isole di terra” di Fevbre (1966), e per convenire, che “il territorio, con il suo olocausto, è la vera prova che bisognerà portare nei tribunali della storia” (Campione, 2007). Perché territorio non è soltanto una costruzione con valenze essenzialmente politiche e di dominio ma principio strutturante di una comunità politica che così materializza il suo ancoraggio al suolo. Questi spazi, pur nel variare dei disegni, e anche nella loro immaterialità, esprimeranno comunque forme di irraggiamento di un polo generatore e coordinatore. Così le città non scompaiono nel gioco di intrecci della globalità, anzi riaffermano il ruolo di controllo sull’esplicitarsi di nodi e reti, perché sono al tempo stesso sistemi territoriali locali e nodi di reti globali (Campione, 2007). 

Così una città contiene, dice Calvino (1993), il suo passato, le sue diverse realtà, in tutto ciò che mente e sguardo riescono a carpire. E Borges (1983), inventando, leggerà la sua Buenos Aires,come “le cose che estinguerà la morte”, una città fuori del tempo ed eterna come l’acqua e l’aria, quella che fluttua tra le parole e i versi. Ma potrebbe essere qualsiasi altra città, come i luoghi e paesaggi “dentro” l’uomo, universali. Spazi che a poco a poco vengono inglobati a formare un habitat secondo l’esigenza vitale di una comunità, che è unica nel suo divenire, nella sua emancipazione. Oppure spazi che sono nati nella mente di un architetto e realizzati con razionale compiutezza come la Chandigarh di Le Corbusier (1951-2015), la “città d’argento” costruita secondo lo schema dell’uomo, il Modulor appunto, la cui mano “aperta per ricevere e donare” è il simbolico monumento al centro della città. O il Memoriale dell’Olocausto, progettato da Peter Eisenman, un percorso labirintico lungo il quale una vasta griglia di colonne di cemento crea un’atmosfera di astrazione che diventa metafora del buio, complesso percorso interiore che l’uomo vive al ricordo della shoah. Metafora oscura e astratta di orrore indicibile.

Geometrie, strutture e aritmetica per scansioni che possono ripetersi all’infinito secondo un sistema che tanto ricorda la Biblioteca di Babele di Borges (1983), la biblioteca della sua Buenos Aires, città specchio e metafora del mondo dove c’è il centro dell’Universo, l’Aleph. Metaforicamente ancora è la sicurezza dell’appartenenza, dell’abitare spazi condivisibili anche storicamente, che permette all’uomo di accedere al centro nascosto di una comunità. E non a caso Borges (1974) parla di biblioteca di libri e di scaffali. Scansioni del pensiero, dei concetti e quindi della cultura che tra gallerie e geometrie perfette corrono il rischio (ma sembra sia necessario per il divenire) di cambiare fisionomia, di mutarsi insomma in altri libri che ovviamente sono da leggere in una visione più globale che l’io, l’individuo. La città come scaffale di memorie? Certo, la risposta non è semplice, ma non dovrebbe essere estranea all’insieme delle nostre considerazioni, una qualche analisi su quel sentimento collettivo che anima movimenti e vicende, che produce senso ed elabora processi di mitopoiesi ed accentuazioni simboliche e che poi connoterà le modalità di organizzazione e di governo del territorio.

C’é una riflessione all’incipit della Fenomenologia di Hegel (2008), che parla del bocciolo che si dischiude nel fiore e si dilegua, come se il fiore confutasse il bocciolo… poi, la comparsa del frutto che mette in chiaro che il fiore “è un falso modo di esistere della pianta”: è il frutto, invece, la verità della pianta. Ma la fluidità di questi momenti non li rende, incompatibili, fluidità “che si rimuovono”, ma momenti di un’unità organica, “in cui non soltanto non sono in contrasto”, ma “l’una non è meno indispensabile all’altra”, è “solamente questa pari necessità a costituire la vita del tutto”. Un altro vivere la geografia, un raccordare utilmente saperi, nel crocevia di un’Italia lunga e breve: come possedere una storia e allo stesso tempo avvertire insufficienza di ricognizioni sui suoi perché. Ed è forse in questo ossimoro che tutto si tiene

Ma torniamo al senso complessivo della riflessione, nella doverosa necessità di interrogarci sulle geografie. Olsson (1980), un geografo svedese, ha scritto: “Con l’importanza tradizionalmente attribuita allo spazio, alla misurabilità e al paesaggio visivo, la geografia si è consegnata ai lineamenti superficiali dell’esterno. Dato che l’esterno è nelle cose e non nei rapporti, abbiamo prodotto studi sulla reificazione in cui un uomo, donna, bambino vengono inevitabilmente trattati come cose e non come quegli esseri umani sensibili, in continua evoluzione, che siamo … Ecco perché si sente tanto dolorosamente il bisogno di una prospettiva più umanistica, non solo nella geografia ma nelle scienze sociali in genere”.

Geografie del vissuto, allora: anche del dolore degli uomini. Se le lacrime di un bambino rimettono in discussione l’onnipotenza di Dio, se dopo Auschwitz addirittura si può decretare la fine di questa onnipotenza, com’è possibile pensare che questo dolore non cambi la terra… e noi raccontiamo la terra, abitiamo le distanze? Non una terra senza uomini, come nella Dissipatio H.G. di Morselli (1985)? E’ possibile andare avanti solo con magnifiche procedure definitorie o con elaborate descrizioni di descrizioni? L’etica del sapere geografico è l’etica della vita, della libertà, della pace. E soprattutto dei perché e degli effetti.

Metti la Sicilia, anche qui lo scaffale di memorie e la borsa degli attrezzi. Il contrasto tra le molte Sicilie, raffigura da un lato una Sicilia in rapido declino - la vecchia Sicilia rurale, la Sicilia profonda - condannata dalla crisi dell’agricoltura tradizionale a esportare i suoi uomini, di fatto la parte essenziale della popolazione attiva, verso le fabbriche e gli uffici. Anche una piccola frangia industriale testimonia la fragilità dell'industria siciliana. Salvo che per uno storico processo di grande qualità artigiana, la governance distrettuale resta ancora lontana. Infine, e soprattutto, una crescita urbana che traduce allo stesso tempo la crisi della società rurale e l’ascesa di un terziario pubblico e privato pletorico, e che alimenta il boom spettacolare, e affastellato, senza allineamenti compatibili e rispetto dei vincoli pubblici. In sostanza, una Sicilia che sembra dismettere il vestito o i vestiti che la facevano considerare una realtà a parte, un mondo a sé. Questo è soprattutto presente a livello delle percezioni diffuse dell’immaginario collettivo.

L’Atlante dei Tipi Geografici (IGM, 2008) rileva nelle sue mappe una confluenza del Val di Noto, di Enna, della ex centralità di Messina e della conurbazione Stretto (Gambi 1972 e 1963), al margine nord dell’antico Valdemone, su Catania, metropoli inconsapevole (?), come nella definizione di Giarrizzo (1986), aree interne in necrosi, quando non proiettate su Palermo, l’antica capitale ormai spiaggiata, dotata per lo più di un terziario parassitario, di redditi e consumi resi possibili da provenienza, anche, se non di regola impropria, prodotta cioè da opaca, o non lineare divisione del lavoro. Residuano infine promettenti vitalità dei pochi distretti essenzialmente trapanesi e ragusano. Cosi si potrebbe forse pensare a più possibili Sicilie che si sovrappongono, certamente in modo non schematico, anche sul piano delle connotazioni antropologiche e culturali.

Innanzitutto la Sicilia delle città, delle continuità urbano-costiere, vere e proprie conurbazioni, inframmezzate dalle chiusure naturali dei promontori. Con un consumo sovente acritico di modelli esterni, ingigantito dall'essere luogo in cui si utilizzano soprattutto risorse prodotte altrove: un consumo facilitato e ampliato dalla persistente logica della regione assistita, sorretta da contribuzioni e trasferimenti e, come si è rilevato soprattutto per l’area Palermitana di proventi non chiaramente raffigurabili. Un sistema, questo, governato dai “mediatori” di queste risorse, i vecchi intellettuali organici ora referenti, con accresciuta professionalità, della borghesia politico-parassitaria, che fruisce dei gratificanti ruoli di sempre, tra connotati di arretratezza, insufficienza funzionale della pubblica amministrazione, degrado ambientale e architettonico, sottodotazione dei fondamentali servizi civili, malesseri sociali e cultura di massa di tipo mafioso: in una sostanza, generalmente condivisa, di cittadinanza alternativa. Tra negligenze e colpevoli distrazioni, sapientemente collocate sugli snodi di un consenso che continua a maturare nelle strettoie e negli anfratti dello scambio che sembrano spesso utilizzare i malesseri diffusi come rendita di posizione. Appartiene al livello di mediazione, sopra accennato, l'enfatizzarsi della diversità e della specialità anche statutaria, che accentuerà riparazionismi e/o rivendicazionismi di dubbia motivazione.

Mentre invece sarebbe soprattutto convenuto svolgere all'interno l’Autonomia (la qualità del governare e, soprattutto, dell’amministrare), guardando all'esterno non per continuare estenuanti bracci di ferro e bovarismi incolti, ripetitivi, ma per attingere idee, prospettive, stili di vita e di convivenza da immettere e amalgamare e intrecciare, in una logica di proficuo intreccio, con i fili variopinti della realtà siciliana" (Corso, 1993). Forse per questo è sembrata riapparire, come permanente, una condizione di insularità che, essenzialmente a livello istituzionale, è andata via via ripiegandosi nell’altezzosa e, al contempo, lamentosa contemplazione dell’improbabile diversità, con una voglia di chiudersi, specularmente contrapposta alle “rimozioni” espresse da tanta parte del Paese. Questi atteggiamenti hanno finito coll’avvitarsi su se stessi in processi cumulativi senza fine. 

Si è preferito contrastare la Sicilia “raccontata” invece di coglierne il senso, rinunciando spesso alla necessaria comprensione della “moralità” delle situazioni, e alla drammatica complessità dei nodi. Per tentare di innescare nuovi processi, per immaginare un senso di modernità, per non sancire ancora una volta la condizione di arretratezza civica e, quindi, di “perdenti radicali”, dice Hensemberger (2010), occorrerà tener presente che tratto costante della modernità è un’accelerazione del ritmo della crisi. Qui però non si colgono sostanziali crisi di sistema. Il blocco storico è permanente e si autoreferenzia. Tentenna, talvolta, ma solo apparentemente. Gli eventi si riassorbono in un termidoro di lunga durata, le strutture resistono, senza che insorgano sensi di colpa, solo inveterati vittimismi.

Si sono sperimentate, in un quasi remoto passato, addirittura prassi di governo, dalla perfomance “volenterosa” e aggressiva, che immaginavano di volteggiare su regolamenti e leggi, per competere con le strutture mafiose, in un immaginifico piano di addomesticamento. Altre volte apparvero occasioni illuminate, per imprimere sensi diversi ai percorsi consolidati, e stabili, ma furono, per la loro anomalia, con diversa “violenza”, interrotte. Godelier (1984) scriveva: "il fattore più forte non è la violenza dei dominanti ma il consenso ideologico dei dominati, da tolleranti e indulgenti a fiancheggiatori: portatori sani di mafia?" In un procedere che enfatizza speciose invenzioni della tradizione (Hobsbawm, 1983) e sostanziali espulsioni dei fattori di modernità e di novità? E’ possibile immaginare un lavoro di ritessitura dell’ordito sociale? … Fino all’innervamento di nuova cultura della cittadinanza, sostanzialmente diversa da connotazioni antropologiche confrontabili, anche se alla lontana, ma di uguale senso, con la precettistica del Kanun (Resta, ed., 1997).

Purtroppo ci dice Steiner (2002), utilizzando Heidegger, noi non sappiamo come pensare, non “siamo emersi dalla preistoria del pensiero” e “la capacità di pensare pensieri che valga la pena pensare, per non dire esprimere e preservare, è relativamente rara”. Forse erano le cose alle quali pensavano il Tarrow (1972), quando cercava di capire perché sinistra e mezzogiorno apparissero come ossimoro, o Banfield (1976), quando in Lucania, ma sarebbe stato lo stesso in Calabria o in Sicilia, analizzava lacerti di società e comportamenti consolidati e arrivava alla constatazione di una illegalità, non percepita come tale, antistatuale, vissuta come necessaria e sacra perché intrisa dell’unico valore possibile, quello del familismo amorale. Oppure le conclusioni di Putnam (1993) sulla tradizione civica delle regioni italiane.

Giuseppe Campione

Pubblicato sulla Rivista online della Fondazione RES
Anno VII - n° 2 - Giugno 2015

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